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La Finestra

Holodomur

Maria cronaca di una vita

L’holodomor


Ci soffermiamo su una parola che ha cominciato da qualche tempo a diffondersi in mezzo a noi. Una parola sconosciuta, avvolta in un velo di mistero, anche per quel suono lugubre che sembra trasmettere. Si sa che le parole non nascono e non si affermano a caso, ma quando arriva il loro tempo. Come un seme che sboccia dopo aver magari passato tanto tempo nascosto nel terreno. L’emersione di una parola può avvenire quando le condizioni storiche e sociali lo rendono possibile, quando il mondo si trova nelle condizioni di poterla accogliere e capire, anche per l’evolversi della situazione geopolitica. Ci sono parole che hanno la forza di caratterizzare intere epoche storiche. È successo per la parola Shoah ed è successo per il genocidio del popolo armeno. Parole che richiamavano immediatamente eventi di una drammaticità inimmaginabile, il tentato sterminio di popoli e razze causato da un preciso disegno politico. Il volto del male è talmente orribile che non riusciamo (o non vogliamo o non possiamo, non lo so) nemmeno ad immaginarlo. E sono i fatti che accadono (che sono accaduti) che danno volto e concretezza a questo male ricordandoci che non bisogna mai allentare la guardia. È sempre l’uomo (noi, uno o una parte di noi) a compiere questo male, dopo averlo concepito e progettato. Non si tratta di qualcosa che viene dal di fuori, ma è il frutto delle nostre scelte, delle nostre decisioni, delle nostre politiche, dei nostri interessi, o dei nostri disinteressi. Proviamo a pensare: certe parole non ci lasciano indifferenti. Non le possiamo pronunciare come parole qualsiasi. A me, per lo meno succede di sentire una scossa, dei brividi ogni volta che pronuncio parole come queste: Shoah e adesso Holodomur. Si tratta di parole che fanno riferimento a fatti che delle persone normali non vorrebbero nemmeno parlare. Come se il non parlarne fosse un modo per non riportare all’esistenza. Ci si spiega perché tanti protagonisti dell’olocausto non hanno mai voluto parlare di quanto avevano vissuto. Era troppo grave, troppo pesante. Addirittura sembrava non potessero nemmeno esistere le parole per raccontare una tale esperienza di male.

Holodomor! Una parola che oggi si sta diffondendo nel mondo, anche a seguito della guerra che la Russia ha scatenato contro l’Ucraina. Non è un caso che si tratti proprio di una parola ucraina. La lingua ucraina somiglia a quella russa ma ne è ben distinta come tutte le realtà che riguardano questi due popoli: la cultura, la religione, la geografia. Essere vicini di una grande superpotenza è una grande calamità. Si rischia di esserne prima o poi fagocitati in un modo o nell’altro. Nella migliore delle ipotesi si è condannati a rimanere perennemente nel suo raggio di influenza. O comunque si è condannati ad essere confusi con il vicino più grande. Il regime di Putin che sta dominando attualmente in Russia afferma che l’Ucraina è talmente vicina a sé da non essere mai esistita come entità statale autonoma. La stessa cosa diceva Metternich dell’Italia nella prima parte del XIX secolo per giustificare la sudditanza di quest’ultima all’impero asburgico. Un’aberrazione madornale. Pensiamo se avesse avuto ragione lui, cosa sarebbe oggi il nostro paese?

Gli ucraini ovviamente non ci stanno ad essere confusi con la Russia. Sanno di essere popolo, nazione, con una storia e una lingua propria. Sanno che c’è in gioco il fatto di scomparire come popolo, di essere fagocitati nelle fauci dello stato vicino. Cosa c’entra lo sterminio? Lo sterminio o genocidio è la conseguenza ultima, estrema di questo conflitto tragico. Dalla parte del più forte, la scelta precisa, cosciente, calcolata e programmata, di far scomparire un popolo in quanto popolo perché la sua semplice esistenza è (sarebbe) un intralcio fastidioso alla propria esistenza. Dall’altra dalla parte del più piccolo, la volontà di resistere a questa follia omicida e criminale affermando il proprio diritto ad esistere, ad esserci. La follia nazista voleva eliminare gli ebrei dalla faccia della terra. Agli albori della nascita della moderna Turchia c’è stato il genocidio degli armeni. E arriviamo a quello che è stato ribattezzato in lingua ucraina Holodomor. Il terzo genocidio, in un certo senso, dopo quello degli armeni e degli ebrei, anche se è ancora molto dibattuto il fatto che si debba parlare di genocidio. La parola significa letteralmente “sterminio per fame”. Una terribile carestia che si è verificata in Ucraina negli anni 1932/33. Una carestia terribile voluta deliberatamente dalle autorità sovietiche per punire e debellare il popolo ucraino. L’Ucraina è una terra pianeggiante e molto fertile. la sua produzione di grano e cereali è sempre stata molto importante. La rivoluzione bolscevica doveva portare alla nascita di un uomo nuovo e di un sistema collettivo completamente diverso da quello precedente. Tutti i piccoli proprietari terrieri (kulaki) dovevano essere debellati assieme alle loro proprietà, piccole o grandi che fossero (uno degli obiettivi della rivoluzione assieme alla collettivizzazione era proprio la così detta dekulakizzazione, l’eliminazione fisica di tutti i kulaki). Nessuno poteva più possedere nulla. Ogni cosa era proprietà dello stato, o del popolo, in definitiva di nessuno. In quegli anni terribili i contadini ucraini sono stati ridotti letteralmente alla fame. Le stime parlano di milioni di persone (4 o 5?) morte per fame. Si dice che si sia trattato di una “carestia artificiale”, per distinguerla appunto da quelle naturali. I contadini erano costretti a consegnare alle autorità i loro raccolti, una prima volta, poi una seconda e via di seguito fino a non poter più disporre di nulla. Non è tutto: a quel periodo si fa risalire la legge che in Unione Sovietica obbligherà ogni persona ad avere un visto per poter spostarsi da un luogo ad un altro. In pratica ai contadini affamati era impedito anche di potersi recare nelle città dove avrebbero potuto trovare con un po’ più di facilità qualcosa con cui nutrirsi.

“Morire di fame”. Quanto è lontana questa possibilità dalle condizioni di vita a cui siamo abituati. Noi siamo attenti ad osservare la macchiolina su un vegetale o la data di scadenza di ogni prodotto. Immaginiamo per un momento cosa possa significare non avere cibo o vederselo piano piano scomparire tutto dalla vista. Individui, famiglie, villaggi interi vennero costretti a cibarsi di bucce, di piante strane, di carogne in decomposizione, degli stessi animali che avrebbero dovuto aiutare nel lavoro dei campi. E poi? E poi, o intanto consegnarsi ad un lento processo di inedia e di infiacchimento che avrebbe portato la vita a spegnersi dopo esser stata prosciugata di ogni energia. Non si muore di fame in un giorno o in una settimana. Si muore lentamente vedendosi morire e vedendo morire tutti quelli che vivono attorno. Qualcosa da inghiottire lo si trova di tanto in tanto, ma è sempre meno. e se trovi qualcosa alla fine è anche peggio perché significa prolungare ancora di più questa agonia senza fine. Si scende sempre di più di livello. Ci si è incamminati in un processo inesorabile di annullamento. Si muore di fame lentamente. I più forti vedono morire prima i più deboli e fragili. Prima i piccoli, i bambini, poi gli anziani, poi gli adulti. Chi ha più forze resiste di più se non è già stato eliminato dalla violenza delle autorità o costretto alla deportazione in Siberia. Sembra proprio impossibile anche solo immaginare lo sterminio di un popolo per fame. Magari riusciamo ad immaginarci qualche persona che muore di stento. Ma un intero popolo? Eppure è quello che è successo. E che succede ancora in tante parti del mondo. Di denutrizione si muore ancora, anche se non si tratta di sterminio programmato da una politica criminale. Almeno fino a prova contraria.

“Morire di fame”. Dovremo pensare a questa eventualità tanto lontana dalla nostra sensibilità assuefatta a tutto e sazia di tutto. Noi e i nostri figli possiamo scegliere ogni giorno tra mille piatti, magari provenienti dalle culture più lontane. Quanto la globalizzazione ci ha resi esperti in ogni tipo di arte culinaria! Eppure al mondo c’è chi non ha nemmeno un piatto davanti a sé. Il mondo è diviso in due: i sazi e gli affamati. E parliamo di due mondi totalmente inconciliabili. Per quanto ci riguarda stanno scomparendo, o sono già scomparsi, gli ultimi vecchi che hanno sofferto veramente la fame (in guerra, nelle steppe russe o nei campi di concentramento) e comunque se sono tornati fino a noi vuol dire che da quell’esperienza sono venuti fuori. Hanno solo sperimentato la fame, ma non ne sono morti. Pensiamo al valore del pane che ogni giorno abbiamo sulla tavola. Potremmo anche non averlo.

La parola Holodomor mi fa’ poi venire in mente che il conflitto Russo Ucraino ha radici storiche ben profonde. Non c’è altro che una violenza come il genocidio in grado di rafforzare la forza dell’identità di un popolo. “Tu vuoi che io scompaia? E invece ti faccio vedere che mi so riprendere prendendo forza proprio dalle cose che tu hai maggiormente attaccato e distrutto. La mia esistenza ti da’ fastidio? Ebbene io apposta ci sono!”. Il regime di Putin ha sbagliato tutto attaccando l’Ucraina che è già stata altre volte sottomessa al potere di Mosca. E per questo ha pagato anche troppo. Non ci potrà mai essere alcun accordo, alcun patto con i russi. Non importa che loro stiano distruggendo con i missili ogni città ed infrastruttura. Distruzione, morte, annientamento dell’altro: a questo si deve giungere se non si ottengono i risultati che ci si era prefissi. Più o meno come ai tempi dell’Holodomor. Allora volevano prendere l’Ucraina per fame, adesso la vogliono prendere condannandola al freddo e al buio. Ma gli ucraini non accetteranno mai le condizioni di Mosca. E la Russia di Putin non sa più cosa fare: andare avanti significa distruzione totale, come è nel suo modo di fare (vedi Cecenia e Siria). Tornare indietro significherebbe ammettere se non la sconfitta, lo sbaglio. E questo sarebbe troppo umiliante per uno stato come la Russia. Per questo gli analisti dicono che non ci sono molte speranze per la pace. Almeno a breve termine.  

Ho scritto queste righe dopo aver letto il libro Maria, cronaca di una vita dello scrittore ucraino Ulas Samshuk. Il libro non è conosciuto come i libri dei grandi scrittori e narratori russi (talvolta si tratta, guarda caso, di ucraini che scrivono in russo). Il libro, tradotto dall’ucraino, racconta la vita di una donna, Maria, e delle vicende del suo villaggio situato nella campagna ucraina. Attraverso le vicende, liete e tumultuose, della famiglia di Maria lo scrittore lascia intravvedere i grandi fatti della storia russa: l’evolversi dello zarismo fino alla sua conclusione, gli eventi che hanno seguito la rivoluzione russa fino all’epilogo tragico della morte per fame avvenuta anche per lei e per tutta la sua famiglia.

                                                                                     Stefano Costa                


 

La casa degli sguardi

La casa degli sguardi

La casa degli sguardi.

In questa pausa estiva, asfissiante e rovente non solo dal punto di vista meteorologico, continuiamo a dar voce alla strana attività che è la lettura di libri. Un’attività che non finisce mai e che ci porta in una dimensione diversa da questo presente pieno di meschinità e di bassezze. La lettura ci aiuta ad elevarci un po’, a respirare un’aria più pura. E più si va avanti, nella lettura, più si aprono prospettive, più si fanno conoscenze, si scoprono cose nuove, nuovi autori. È come seguire il sentiero di montagna in una splendida giornata di sole. Ad ogni passo ci si aprono prospettive e visioni sempre più ampie, ad ogni libro che si chiude sorge il rammarico per averlo finito e subito la voglia di aprirne un altro. Ci si Imbatte in un libro, si cominciare a leggerlo e poi ci si interessa a chi lo ha scritto, alla vicenda che ci sta dietro. L’autore e il testo sono strettamente connessi. Il testo, ogni testo, ogni narrazione è il succo, il condensato di una vita.

La casa degli sguardi è il racconto che Daniele Mencarelli fa dei suoi primi otto-nove mesi passati a lavorare come addetto alle pulizie di una grande cooperativa di pulizie che ha l’appalto all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Nella seconda di copertina si legge che i fatti narrati sono frutto di fantasia, in realtà ogni cosa, nome del protagonista ed avvenimenti, sembrano corrispondere quasi del tutto alla vita dell’autore. Un testo di narrativa frutto di una forte esperienza personale. Chiaramente quando si racconta si distilla e si trasfigura, si sposta e si modifica. Il racconto non è la cronaca precisa di una serie di avvenimenti, ma la loro presentazione globale. Il racconto è filtrato dalla personalità e dalla soggettività di chi lo fa’. Non serve essere precisi. Non è questo che interessa. Interessa la storia, che proprio perché è stata vissuta con intensità da una persona è capace di interessare e di parlare a tutti.

Chi scrive in questo libro è un giovane adulto, con ambizioni di poeta, immerso fino al collo nella dipendenza dall’alcol. La prima parte del libro è il racconto di tutti i tentativi fatti per risolvere il problema. In realtà il problema non può essere risolto perché manca la volontà, la motivazione per farlo. Genitori e fratelli non ottengono niente con consigli, minacce, lacrime. Finché un giorno Daniele, il protagonista e autore, ha il coraggio di chiedere aiuto ad un amico poeta come lui, anche se in una posizione professionale ben più consolidata. Dopo qualche ora gli viene fatta una proposta di lavoro. Non un lavoro di poeta, però, non un lavoro intellettuale, non il lavoro che forse aveva tanto ed inutilmente sognato e che forse è stato fino ad ora uno dei motivi della sua frustrazione e del conseguente imprigionamento nella gabbia della dipendenza. Si tratta di un lavoro duro, umile, sporco, almeno all’apparenza, ma autentico, un vero lavoro, fatto di sudore e tanta manualità. E a questo punto potremmo condurre questa specie di recensione a perdersi sul tema del valore pedagogico ed educativo del lavoro: del lavoro vero, faticoso, non del lavoro dei sogni, del tipo “cosa vorresti fare da grande?” (quanto può risultare, a pensarci bene, stupida e diseducativa questa domanda che tante volte rivolgiamo ai bambini: come se il lavoro fosse un sogno e non invece, il più delle volte, una dura e faticosa conquista, un dover sbattere la testa più e più volte fino a trovare un po’ di quiete, nella consapevolezza che l’ideale tante volte è il nemico della realtà e quindi anche della stessa vita? Come se fosse vero che il lavoro può essere il frutto di una scelta e non invece l’accettazione consapevole di una o di più opportunità che ci vengono offerte). Daniele, il protagonista, riconosce che il primo passo che ha fatto per uscire veramente dal tunnel della dipendenza dell’alcol è stato l’aver accettato e iniziato quel lavoro concreto e vero. Anche a dispetto della posizione scettica e incredula della mamma che lo vedeva totalmente incapace di applicarsi ad un lavoro tanto umile in un ambiente (l’ospedale pediatrico) pieno di “trappole” emotive. Il lavoro che ognuno svolge è il marchio della sua stessa vita, il distintivo della sua dignità, il suo modo di essere utile a questo mondo contribuendo a migliorarlo almeno un po’. Non esistono lavori di serie A o di serie B. Il netturbino, la donna delle pulizie valgono come il presidente della repubblica e sicuramente infinitamente di più di tanta parte dei nostri politici che sgomitano per raggiungere posizioni di rendita e di privilegio, senza averlo meritato. Perché tutti i lavori non sono pagati proporzionalmente allo stesso modo visto che hanno tutti la stessa dignità? Ma chiudiamo questa divagazione.

Daniele comincia ad uscire dal tunnel un passo alla volta, prima di tutto imponendosi di non bere durante la settimana lavorativa, grazie alla fatica che lo tiene occupato e grazie alle belle relazioni che riesce ad instaurare con i colleghi. La fatica del lavoro gli apre un mondo pieno di insospettata ricchezza e bellezza. È l’alternativa, l’unica alternativa, al bicchiere di bianco a cui fino ad ora dedicava ogni momento di vita ed ogni energia. Ecco la molla, lo stimolo, per uscire dalla dipendenza: “non hai nient’atro di meglio da fare? un modo migliore di impiegare la tua vita?”

Comincia ad uscire dal tunnel mano a mano che apprende a vivere sul serio questo lavoro … umile, sottopagato, di bassa manovalanza. Tutt’altra cosa che il lavoro di poeta su cui aveva a lungo sognato e investito. Anche se lui è il primo a sapere che di poesia non si vive. “Carmina non dant panem”. Un lavoro umile, quello all’ospedale pediatrico Bambino Gesù, eppure vissuto con dignità, come se fosse il lavoro più importante e necessario del mondo. E a pensarci bene non è proprio così? come sarebbe quell’ambiente, come potrebbe andare avanti senza il servizio nascosto di chi pulisce, di chi si prende cura delle persone, nella fedeltà quotidiana e nascosta? Non è la comunità terapeutica a salvare il protagonista dalla schiavitù dell’alcol ma il lavoro, vissuto fianco a fianco con persone come lui, persone stupende che tanto gli hanno dato in termini di amicizia e di relazione (simpatico e divertente a questo proposito quel romanesco con cui è scritta la maggior parte dei dialoghi del racconto) e il lavoro inteso come partecipazione ad un progetto comune, ad una casa comune. Non si lavora da soli o per sé stessi ma all’interno di un’opera che ci sovrasta e ci supera tutti. E quel progetto, disegno, casa (“casa degli sguardi”) è la realtà rappresentata dall’Ospedale Bambino Gesù. Un grande ospedale pensato per accogliere e prendersi cura delle sofferenze dei bambini, di Roma e di ogni parte del mondo. E’ l’ospedale in cui si cerca di dare una risposta alla sofferenza dei piccoli. E sarà questa un’altra traiettoria del processo di maturazione e di liberazione del protagonista. Il male dei bambini, la sofferenza e per alcuni addirittura la morte. Perché tutto questo? Cosa c’entrano loro con il male e la morte? Dapprima questo dramma porterà Daniele a lasciarsi andare ancor di più all’alcol (quasi a riprova che è l’unica cosa per cui vale la pena di vivere. Se si soffre così, se si muore così, se anche i bambini che non hanno fatto nulla di male sono condannati in questo modo, allora tanto vale annegare tutto nell’alcol, annichilirsi e distruggersi per non pensare a nulla). Poi però lentamente la prospettiva cambia: proprio perché esiste questo male bisogna avere il coraggio e la forza di prenderlo sul serio, di guardarlo in faccia senza lasciarsi schiacciare e soccombere e, soprattutto, senza nascondersi vigliaccamente dietro alibi inconsistenti. La presa di coscienza del male che ti sta attorno, soprattutto del male dei più piccoli e innocenti ti fa capire quanto sia codardo e vigliacco ad annientare anche la tua vita nel bere. Proprio tu che hai ricevuto tutto, che non hai problemi fisici, come quei bambini. La sofferenza e la morte degli altri, soprattutto di coloro ai quali ci si è legati o affezionati, (come è stata l’esperienza di conoscenza dell’autore con alcuni bambini) diventa uno stimolo a testimoniare, a vivere un po’ per loro, a fare un po’ quello che loro non hanno potuto fare o ad essere quello che loro non sono riusciti ad essere pienamente.

C’è nel libro un lieto fine, una conclusione “felice”, una conclusione che nella vita normale è tanto difficile trovare. Ma è per questo che si scrivono e si leggono i libri, per trovare piste, vie e anche soluzioni che certo sono diverse per ogni persona ma che possono aiutare tanto quando sono condivise. La conclusione è il riscatto avvenuto, anche se questo è tutt’altro che definitivo. Il riscatto va mantenuto sapendo che la vita continua sempre con le sue sfide e le sue tentazioni, i suoi richiami al “bicchiere di bianco”, ma sapendo anche che quello che si è trovato (quello che Daniele ha trovato e condiviso) ha una forza e una capacità di attrazione infinitamente più grande.

Stefano Costa        


L’imprevedibile viaggio di Harold Fry

l imèprevedibile VIAGGIO DI HAROLD FRY

L’imprevedibile viaggio di Harold Fry

Tra la montagna di libri che vengono scritti i più appetibili e attraenti, a mio parere, sono quelli che parlano di viaggi, dell’uscita dal proprio piccolo mondo alla ricerca e alla scoperta di nuove dimensioni. sconosciute. Ancor più belli se questi viaggi vengono realizzati a piedi. Il massimo che si può leggere è un libro di cammino.

L’ultimo di questo genere letterario che ho letto con passione, anzi letteralmente divorato, è della scrittrice inglese Rachel Joyce, “L’imprevedibile viaggio di Harold Fry”. Mi è stato caldamente consigliato da un amico. Si sa, i libri da leggere o che si potrebbero leggere sono un’infinità e le forze e il tempo sono quello che sono. È necessario continuamente scegliere, in base ai propri gusti ed interessi letterari. È un bellissimo dono quando qualcuno ti può dare la dritta giusta, il segnale per orientarti in questo universo sterminato. Leggere un bel libro è come fare un bell’incontro, aprire una relazione. E per lo più nei libri ci si imbatte grazie ai passaparola personali. Se trovo qualcosa di bello per me, qualcosa che mi ha aiutato ed aperto orizzonti, sento la necessità di passarlo anche ad altri. Certo occorre essere animati e accompagnati dalla stessa passione della lettura.

Tento qualche sottolineatura di questo ultimo libro scoperto.

Harold Fry è un tranquillo pensionato di 65 anni che vive con la moglie Maureen in un sobborgo di Kingsbridge, una cittadina situata all’estremo Sud dell’Inghilterra. La loro è una vita tranquilla, forse troppo, al punto da diventare tediosa, pesante. Non è solo la vita di due pensionati che vivono da soli. C’è qualcosa di più. L’orizzonte di vita di chi è arrivato alla pensione, molto spesso, sembra andare inesorabilmente restringendosi con la scomparsa degli impegni lavorativi e delle responsabilità sociali. In essa sono presenti tanti silenzi, gesti consuetudinari, cose che non si dicono più perché si sono già dette e ripetute tante, troppe volte. Si tratta dell’ambivalenza dell’abitudinarietà: la forza e il limite dell’abitudine. Essa può costituire una sicurezza, una garanzia, una serie di punti di riferimento utili al lento diminuire della freschezza interiore e delle forze esteriori. E allo stesso tempo, può sfociare nell’impoverimento mentale e spirituale. Sono le due facce della medaglia, i pro e i contro di questa realtà. Ogni cosa ha il suo prezzo. Non esiste condizione di vita ideale.

Torniamo ad Harold. Le sue occupazioni, già limitate e povere prima, a partire dalla pensione si sono ancor più ridotte all’essenziale. È un’impresa gestire la propria vita, personale e di coppia, in modo nuovo, costretti come si è a stare gomito a gomito dalla mattina alla sera. Harold ha il punto fisso del giardinetto e dell’orto (come spesso succede per i pensionati). La moglie Maureen è occupata, maniacalmente, con la cura e la pulizia della casa. Gli spazi di sempre, anche se molto ridimensionati: l’uomo all’esterno e la donna all’interno. Poche cose a cui pensare e poche parole da scambiarsi come coppia, dopo tanti anni vissuti assieme. Appunto: dopo tanto tempo rimane soprattutto il silenzio. Il silenzio è lo spazio dell’assenza delle cose da dirsi, ma anche lo spazio del non detto, di ciò che non si riesce più a dirsi. Succede ad un certo punto che la comunicazione finisca per incepparsi. Si pensa che sia inutile o impossibile tentarla ancora. È sottinteso che ci siano certi tasti che possono essere toccati e altri no. Un accordo dissonante è sempre nell’aria. E nessuno lo vuole. È successo altre volte ed è stato sgradevole. Ora basta. Si preferisce il quieto vivere. Ciascuno finisce per convivere con il proprio specchio e con gli altri che gli stanno accanto (moglie o marito) che pensa di conoscere fin troppo bene. E forse è proprio questo il problema, il grande equivoco: il fatto di pensare di conoscere fin troppo bene le persone con cui viviamo da tanti anni. È come se dicessimo: “Ti conosco fin troppo bene, meglio di chiunque altro, dunque ti impedisco di essere diverso, di stupirmi”. Nessuno può essere profeta nella propria casa. Ecco il senso di quell’aggettivo che troviamo nel titolo: “imprevedibile”. L’altro, anche se ci è caro, anche se lo amiamo, deve, può avere il proprio spazio di imprevedibilità. Può essere diverso da come l’abbiamo conosciuto finora. E se l’altro si presenta veramente come imprevedibile io vengo scosso nelle fondamenta, mi apro allo stupore, alla sorpresa. Il libro ci mostra questo fatto: ad essere imprevedibile è il viaggio, ma a pensarci bene è la persona stessa che lo intraprende. Meglio ancora, intraprendendo quel viaggio Harold si apre all’imprevedibile, ad una dimensione che non aveva mai pensato di affrontare. Il viaggio ci fa scoprire diversi da come pensavamo di essere.

Una mattina di aprile Harold e Maureen sono seduti a tavola per fare colazione assieme, come sono soliti fare, in silenzio o parlando di come lui prende in mano il pane da imburrare (cose da niente che si dicono perché dentro di sé c’è nascosto ben altro). Si inizia una giornata come quella di ieri o dell’altro ieri. Bisogna far venir sera, senza sbalzi emotivi, in quel piattume di sentimenti. Ma quella non è una giornata come le altre. Arriva una lettera. A mettere a soqquadro i ritmi.

Queenie, una vecchia collega di lavoro di Harold, di cui da oltre vent’anni non ha più sentito parlare, gli comunica di essere ricoverata in una casa di cura a Berwick upon-Tweed, sul mare del Nord al confine con la Scozia, ammalata di un brutto cancro e prossima alla morte. Harold rimane sconvolto. È come se un passato sepolto da tempo si risvegliasse all’improvviso con il suo carico dirompente di emozioni. Con molta difficoltà le scrive a sua volta una lettera per confortarla. Poi esce per imbucarla. E a questo punto comincia a succedere qualcosa. Non riesce a farlo. Passa ad una seconda buca, poi ad una terza. E intanto si allontana da casa, dal suo borgo familiare. Entra in una stazione di servizio e racconta la storia di Queenie alla ragazza che lo sta servendo. Parlano un po’ assieme. E alla fine, grazie a quella ragazza, lui si convince che la lettera è troppo poco. Lui deve andare da Queenie. Comincia a camminare in direzione Nord. Il viaggio inizia in questo modo, nella convinzione, poi comunicata anche per telefono al personale della casa di riposo, che la sua amica non debba morire fino a quando lui non sia arrivato da lei.

Passo dopo passo, mettendo un piede davanti all’altro, con grandissima difficoltà e fatica Harold macina km su km. Ma la strada è lunga, troppo lunga. E lui è tutt’altro che un pellegrino o un camminatore professionista e allenato. Non ha mai camminato in vita sua, se non per brevi distanze. Si mette in cammino senza sapere come si fa’, senza alcuna preparazione.

Anche il suo abbigliamento è tutt’altro che consono all’impresa che si è trovato ad intraprendere. In giacca e cravatta. E le scarpe da vela che dopo poco tempo gli procureranno dolori e ferite ai piedi. Ma continuerà per tutto il viaggio agghindato in questo modo. Incontra tanta gente lungo la strada. E anche questo è un aspetto dell’incredibile, dell’imprevedibile che ci è piombato addosso: lui si scopre diverso da quello che era, da quello che pensava di essere. Lui e anche la moglie con cui è quotidianamente in contatto telefonico (quello delle cabine perché il cellulare l’ha lasciato a casa). Ed è il viaggio a far scoprire questo altro Harold. Sarà pure la constatazione inizialmente drammatica della moglie che in alcuni momenti penserà addirittura di averlo perso. Harold è cambiato anche se lui stesso non se ne accorge. Diventa importante per gli altri, punto di riferimento, quasi un eroe. Una persona semplice, e per certi versi scialba come lui, diviene cassa di risonanza per dialoghi, incontri, condivisioni di storie, esperienze. Lui comunica a tutti quelli che incontra il viaggio che sta facendo e il motivo. E gli altri lo guardano stupiti e poi con ammirazione arrivando spesso ad aprirsi a loro volta a lui. Ad un certo punto qualcuno comincia a seguirlo. A metà viaggio tutta l’Inghilterra è a conoscenza di quello che sta facendo. Una vicenda che ricorda il più noto Forrest Gump. Harold viene menzionato sui giornali, sulle televisioni, anche se a lui non interessa. Non ha certo il tempo di guardarli. Ma il successo, la notorietà, non toglierà nulla alla fatica e alla sofferenza del suo viaggio. Anzi. Sbaglia strada, deve tornare sui suoi passi più volte, è tentato di tornare indietro quando manca poco all’arrivo. Quando arriva a Berwick, dopo 87 giorni e più di mille km percorsi, è stremato, stravolto, totalmente demotivato. Riesce comunque a vedere Queenie per l’ultima volta.

L’idea del viaggio non nasce a tavolino, da un progetto, da una grande visione, da spirito di avventura, ma da qualcosa di estremamente concreto. Harold ha fatto la promessa di vedere Queenie e nessuna difficoltà e ostacolo potranno impedirgli di mantenerla. Non solo: lui ha la certezza che lei lo sta aspettando e che non morirà prima del suo arrivo.

Il cammino si apprende camminando. “Cammino apre cammino”. Ciascuno ha il suo cammino che deve scoprire e far proprio. Ognuno ha le sue motivazioni e i suoi ideali. E tutti sono importanti, unici. Il cammino ci aiuta a diventare noi stessi, autentici.

Per Harold il cammino si profila come l’impresa più importante di tutta la sua vita, qualcosa di assolutamente inedito, impossibile solo a pensarsi fino al giorno prima. Il viaggio diventerà il mezzo, “la via” che permetterà di far luce, a lui e anche agli altri, su tanti aspetti oscuri e drammatici che si sono accumulati nel corso degli anni. Una vita mediocre e abitudinaria acquista una luce e un senso nuovo.

Altra considerazione. A proposito dell’imprevedibilità del viaggio. Harold decide di partire all’improvviso, da un momento all’altro. Non è come gli altri viaggi che si programmano e preparano per tempo. È un fulmine a ciel sereno, una scelta clamorosa, lucida e determinata frutto dell’illuminazione di un momento. Una illuminazione che sconvolge e sconquassa in meglio la sua vita, quella della moglie e anche quella della vecchia collega e amica che sta morendo. La vita può riservarci talvolta sorprese inaspettate. E nella sua fantasia senza limiti può arrivare a far sciogliere i nodi più intricati che si sono formati nel corso degli anni. Il viaggio di Harold, uomo semplice e discreto, mette in luce quanto sia importante trovare qualcuno a cui aprire il proprio cuore. La vita di ciascuno è più o meno piena di problemi apparentemente insolubili. Spesso viviamo l’uno accanto all’altro senza che la semplice presenza possa dare conforto. Anzi, al contrario, a volte la presenza della persona cara diventa un peso proprio per questi problemi a cui rimanda in continuazione. Immersi in silenzi imbarazzanti. Ci sembra che il familiare, il marito o la moglie, siano colpevoli, responsabili, di tutti i nostri mali mentre invece, non sono altro che capri espiatori su cui siamo noi a scaricare ogni misfatto. E invece per certi mali, per certe sofferenze non esistono colpevoli, non esistono imputati. Colpevoli, imputati lo siamo un po’ tutti, anche se è difficile riconoscerlo ed ammetterlo. Ci sembra che sia lui, l’altro/a, il colpevole della nostra infelicità e finiamo per accusarlo di ogni male. In realtà la fonte dell’infelicità, e del male è dentro di noi, dentro ognuno di noi. Non ci sono innocenti. Tutti siamo colpevoli. E di tutto questo cominciamo ad accorgerci quando si delinea la prospettiva del viaggio, quando ci si mette in cammino, quando ci si allontana, quando si prendono le distanze. Dopo tanti chilometri, incontri ed esperienze, si possono cominciare a vedere le cose in modo diverso. Si può vedere soprattutto con chiarezza all’interno di sé stessi. Il viaggio è prima di tutto interiore, un’esperienza di purificazione.

All’inizio c’è il groviglio, il caos di sentimenti e ricordi. Il viaggio permette a tutto questo di venire alla luce. Ed è un’esperienza devastante, ma necessaria. Allontanandosi da casa si finisce per riavvicinarsi a sé stessi. E alla fina sarà la riconciliazione. È significativo che tutto termini sulla costa del mare del Nord a Berwick con Harold e Maureen che tenendosi per mano si lasciano andare ad una interminabile risata che li porta a rivedere in nuova luce tutto il passato che hanno vissuto assieme. Lui non ha saputo comunicarle tutte le lacrime che ha versato in quei 87 giorni, ma solo questa fragorosa risata a cui anche lei finisce per partecipare.

 

Stefano Costa       


 

Estate rovente

sole caldo

Estate rovente!

Questa estate rovente ci fa’ capire quanto siamo carenti, fragili, imperfetti, mal fatti. Desideriamo il fresco, sospiriamo ardentemente che finisca l’estate e arrivi l’inverno.

Il canto insistente e sgradevole delle cicale è coperto dal brusio dei motori dei condizionatori che producono il fresco per i nostri ambienti chiusi. Quando siamo costretti a stare all’aperto, affrontiamo il sole boccheggiando, annaspando, alla ricerca di un improbabile brezza di fresco o delle zone d’ombra sui cui poter camminare. Il caldo ci prostra. Il fresco ci rigenera, come l’acqua fresca che ci lava e ci disseta.

In momenti, in giorni come questi ci accorgiamo di quanto possa cambiare il nostro habitat, di quanto possa diventare inospitale l’ambiente, la casa in cui si svolge la nostra vita. Ce ne rendiamo conto guardando ai disastri di questi mesi, soprattutto il disastro che sta all’origine di tanti altri: il caldo e la siccità. Non piove da troppo tempo e il termometro sale sempre più in alto. Come ai tempi del profeta Elia sembra che i cieli si siano chiusi abbandonando la terra alla desolazione e alla morte (1Re).

 L’acqua dunque! L’acqua che viene giù dal cielo e l’acqua presente sulla superficie terrestre. L’acqua con cui abbiamo a che fare tutti i giorni, necessaria, indispensabile per la nostra vita, per la nostra salute.

“Laudato sii o mi Signore per Sora nostra acqua”. L’acqua che San Francesco chiama sorella nostra, uno dei principali doni di Dio. Come tante cose che ci circondano e che diamo per scontate non considerandole nel loro valore, nella loro preziosità. Adesso si comincia a dire che l’acqua può essere più preziosa dell’oro. In nome dell’acqua si scatenare guerre, come accade per le fonti energetiche.

L’acqua dei fiumi, dei ghiacciai, delle cascate. L’acqua imbrigliata, imprigionata nelle condotte forzate, l’acqua sprecata in continuazione. Risorsa della cui importanza mai come in questo tempo di caldo feroce abbiamo consapevolezza. Bene comune che sta diventando sempre più raro.

Ecco, appunto: l’acqua rientra nella lista dei beni comuni. Vale a dire di tutti, di cui nessuno può impadronirsi, su cui nessuno può speculare. Beni che vanno salvaguardati in vista della salvaguardia dell’intera umanità. La crisi, la mancanza d’acqua è una minaccia alla sopravvivenza non solo del genere umano, ma di tutto il pianeta. Assistiamo alla fusione sempre più veloce dei ghiacciai. Il collasso di un pezzo enorme di ghiacciaio avvenuto sulla Marmolada ha causato una domenica di sole e di caldo la morte di undici alpinisti.

Ma quello della Marmolada è stato solo il caso più estremo, più drammatico. Quanti saranno chiamati a pagare in futuro per la mancanza di acqua? O per la sua rarefazione?

Siamo abituati troppo bene. O meglio il progresso, il benessere ci ha completamente diseducati. Siamo diventati dei male educati. Sia per l’uso dell’acqua, sia per l’uso di tutte le altre risorse e tutti gli altri beni: dal cibo all’energia. C’erano una volta i pozzi, le fontane. L’acqua andava attinta, con pazienza e fatica con secchi e contenitori. E poi veniva portata a spalle o sulla testa. Quella che si prendeva non poteva essere sprecata, sia perché era poca sia perché l’attingervi richiedeva notevole fatica. Era un dono che andava meritato, conquistato. Oggi apriamo i rubinetti e l’acqua esce all’istante, a scrosci. Calda o fredda. Facciamo impunemente più docce al giorno senza percepire il valore di quest’acqua che ci lava e rinfresca. Magari apriamo il rubinetto e la lasciamo scorrere diversi minuti fino a quando raggiunge la temperatura desiderata. Tutto è diventato più facile, immediatamente fruibile (pensiamo al riscaldamento, alle luci, ai condizionatori). Tutta la vita è stata resa molto più facile. E il consumismo ci dice che lo sarà sempre di più. Il culto del benessere, lo stare bene a tutti i costi, ha preso possesso di tutti. Certo star bene, sentirsi bene, avere tutte le comodità è giusto, nella logica delle cose. Chi vorrebbe tornare indietro, dopo che ci siamo abituati ad ogni tipo di comodità? Una volta nelle chiese i parroci e i predicatori sottolineavano con forza  i valori del sacrificio, della rinuncia, della penitenza. Adesso non lo fa’ quasi più nessuno. Anche perché la gente non va più in chiesa ad ascoltare le prediche. Si è abituata a prestare ascolto a predicatori di altro tipo: soprattutto quelli che ti propongono l’ultima novità, un oggetto ancora più comodo che aumenterà (ci viene detto) il nostro benessere. Comunque una riflessione va fatta. Elon Musk e quelli come lui propongono conquiste sempre più ardite dal punto di vista tecnologico (“La tecnologia salverà il mondo” ha detto provocatoriamente a papa Francesco), ma chi potrà godere di queste tecnologie? È da folli pensare che un giorno le migrazioni possano dirigersi verso Marte, anche ammettendo il fatto che Marte possa essere reso abitabile. Come potranno spostarsi milioni di esseri umani? Quanti possono permettersi l’auto elettrica che si vuole imporre a tutta l’Europa dal 2035?

Non ci accorgiamo che stiamo andando sempre più avanti, sempre più in alto, come umanità senza chiederci quanto questo “progresso” sia sostenibile e per quanto tempo? a meno che non partiamo dal presupposto che a godere di tutte queste innovazioni tecnologiche possano e debbano essere solo i più ricchi, la ristretta casta dei supermiliardari che tengono in mano le sorti finanziarie del mondo. Ha una certa logica: possiamo pensare che loro siano i privilegiati, il “meglio”, il “distillato” dell’umanità. E a discendere la piramide con gli umani che hanno sempre meno valore, fino ad arrivare, più in basso, alla grande massa degli scarti. A pagare saranno sempre i più poveri, ovvero i più.

Parlare di decrescita è una bestemmia per il sistema finanziario mondiale che si sostiene solo se il Pil cresce. Scendiamo di livello allora. Parliamo di sostenibilità. Ovvero della necessità di investire e di produrre in beni e servizi che siano sostenibili con l’ambiente. Certo la visione della sostenibilità non va ad impattare con il sistema finanziario-capitalistico vigente. Non lo mette in discussione dalle sue radici come fa la teoria e il movimento della decrescita. Cerca di orientare la produzione di beni e di ricchezza in modo che tutto questo non danneggi più l’ambiente e tenga conto di quante risorse sono necessarie per produrre quei determinati beni. Una cosa è certa: non si può produrre, distruggere, inquinare all’infinito. La Terra ha un limite. È anch’essa una creatura come ciascuno di noi, anche se una creatura più grande: la Madre Terra, la Pachamama da cui ogni essere ha avuto origine. “Sorella Terra” per tornare alla preghiera di San Francesco.

Vediamo quello che sta succedendo in questi giorni: siccità, fiumi in secca, con il cuneo salino che risale dal mare per decine e decine di metri, laghi che vedono il livello dell’acqua scendere da un giorno all’altro, ghiacciai con gli anni contati. E tutto questo mentre il clima si fa’ sempre più rovente anche nelle nazioni situate al Nord del globo terrestre. Non serve a niente fare i catastrofisti. Ma non è giusto nemmeno fare i negazionisti, far finta di niente, dire che questi problemi ci sono sempre stati e lasciare alla natura il compito di autoregolarsi. Poi non lamentiamoci quando arriva il conto, anche in termini di vite umano. Finché possiamo, finché siamo in tempo cominciamo ad educarci in maniera differente. Cominciamo a cambiare lo stile delle nostre vite. Cambiamo abitudini, a partire dall’acqua, dall’energia, dalla nostra alimentazione, dalla produzione di rifiuti, dalla tendenza al consumo e allo spreco. Finché siamo in tempo. Pensiamo a quello che stiamo facendo ogni volta che giriamo il rubinetto.

 

                                                                                           Stefano Costa   


 

Fine del mondo...

Finestra di casa

Il mondo non finisce con noi

Dalla finestra ogni giorno che passa assistiamo sbigottiti e impotenti a segnali sempre più inquietanti. I più catastrofisti o chi si approccia alla vita con atteggiamento intriso di superstizione potrebbero interpretare tali fatti come segnali che lasciano presagire la fine del mondo. Di quali fatti parliamo? Bastano solo brevi cenni: si tratta parliamo di cose che ci affliggono da tempo e di cui tutti abbiamo fin troppa consapevolezza.  

Primo: la pandemia, causata dal virus letale che ha colpito e messo alla prova tutta l’umanità e che continua ad imperversare con le sue varianti, nonostante i successi della scienza. Secondo: la guerra di invasione in Ucraina provocata dalla Russia assetata di territori, di distruzione e di sangue e contrapposta da un occidente desideroso di ripristinare gli equilibri con la forza e l’uso di armi sempre più sofisticate. Terzo (anche se cambiamo un po’ il registro) il calore rovente che provoca siccità (quarto); i fiumi in secca con il cuneo salino che sale irrimediabilmente e velocemente lungo il letto (quinto). La mancanza di grano con la conseguenza di popoli poveri abbandonati a fame e carestie (sesto) e ad inevitabili migrazioni (settimo). E infine, conseguenza dell’aumento della temperatura terrestre, la fusione di ghiacciai e il conseguente collasso della conformazione alpina (ottavo). Già il ghiacciaio della Marmolada era ridotto fino a qualche giorno fa’ ad un terzo delle dimensioni che aveva all’inizio del secolo scorso. Nel giro di qualche secondo una buona fetta della sua calotta è collassata su sé stessa franando in basso e travolgendo mortalmente oltre una decina di alpinisti che lo stavano attraversando più in basso. Siamo arrivati ad otto. Senza grandi sforzi potremmo arrivare facilmente al numero simbolico di dieci. Dieci come le piaghe che si abbatterono sull’Egitto prima che il faraone permettesse al popolo di Israele di andarsene secondo il racconto dei primi capitoli del libro dell’Esodo. A dir la verità c’è stata anche la notizia dell’invasione delle cavallette in Sardegna con la conseguente devastazione di vaste aree di colture agricole. E siamo già a nove. Ma senz’altro mi sfugge qualcosa. Potremmo scovare qualche altra calamità o catastrofe (per esempio il terremoto in Afghanistan di cui tanto poco hanno parlato i media tanto presi come erano da altre notizie).

Povera umanità. Povera e impotente, incapace di prevedere e provvedere, di porre rimedio. E chi potrebbe farlo? Chi sarebbe in grado di invertire la rotta? Il racconto delle piaghe bibliche parla di eventi ineluttabili, e al di fuori della portata dell’uomo, eventi catastrofici che riguardano in qualche modo la fine del mondo, ma non lo sono affatto. Le catastrofi non sono mai la fine del mondo, ma dei segnali da interpretare. Nella Bibbia le catastrofi sono attribuite alla mano di Dio che intende dare dei segni all’uomo e al suo popolo perché cambi vita, si converta. Come il diluvio Universale. Da ogni catastrofe l’uomo (l’umanità) si è sempre risollevato e ha ripreso e ricostruito la propria vita, apprendendo qualcosa dalle lezioni passate ma ritornando immancabilmente a commettere gli errori antecedenti. Una catastrofe è la fine del mondo per chi soccombe in essa, per chi ne è colpito (nel senso che per lui il mondo finisce) ma è occasione di rinascita e di costruzione di qualcosa di nuovo per chi rimane, per chi viene risparmiato. Occasione per avviare qualcosa di nuovo, magari una realtà molto più prospera di quella che c’era prima. Ho sentito alla radio in questi giorni che mentre l’esercito russo sta letteralmente radendo al suolo il loro paese, le autorità ucraine assieme ad esperti del FMI stanno già prevedendo l’immensità dell’affare costituito dalla ricostruzione. Si parla di migliaia di miliardi di euro o di dollari. Pensiamo un po’? Città vengono sbriciolate una dopo l’altra sotto i missili russi e c’è chi pensa già come sarà dopo di loro.

Certo queste calamità naturali (e non solo), queste piaghe “bibliche”, sono molto diverse tra di loro. Ma esiste un forte collegamento. Il racconto della Bibbia (frutto della sedimentazione di una cultura orale che proviene dalla notte dei tempi, dai quattromila fa’ in su) fa’ riferimento ad eventi naturali accaduti e tramandati oralmente da tempo. Eventi terribili, che hanno stravolto la vita dell’uomo e la sua organizzazione sociale. La Bibbia li ha descritti, con il paradigma religioso allora alquanto ricorrente come “castighi di Dio”.

Oggi (anche se c’è sempre qualcuno che si gode a vedere in ogni cosa la mano di Dio) sappiamo che le calamità di cui parliamo, e  che succedono attorno a noi sono, al contrario, la conseguenza di una azione umana troppo invadente e nociva. Le piaghe e le catastrofi bibliche sono descritte come castighi divini ad una azione peccaminosa dell’uomo. A pensarci bene, anche oggi non siamo molto lontani da questa considerazione. Solo che non si tratta di un castigo che proviene dall’esterno, da una volontà superiore (da Dio appunto), è l’uomo stesso a procurarsi ogni tipo di male e di castigo. Oggi sappiamo che l’uomo ha gran parte della responsabilità di tutto quello che accade nel mondo.

Non è il caso, a questo punto, di assumere, come tanti fanno, atteggiamenti negazionisti (relativizzare ogni cosa dicendo che queste cose sono sempre successe e sempre succederanno, relegandole a meri fattori naturali) e neppure di atteggiamenti totale disinteresse, vista la complessità e la problematicità delle problematiche che si presentano, l’atteggiamento di chi pensa solo al proprio interesse e al proprio tornaconto, di chi dice con arroganza e totale disprezzo di ogni responsabilità: “Me ne frego!”. E neppure, dal punto di vista religioso, l’atteggiamento fondamentalista di chi aspetta quasi con soddisfazione, la fine di tutto ad opera di un Dio giustiziere e sadico. Chi non si è ritrovato a dire almeno una volta di fronte al male e alle ingiustizie: “Perché Quello lassù non guarda in giù qualche volta?”  

E invece dobbiamo dire, dalla piccola e fragile posizione democratica e civile in cui ci troviamo (fragile e impotente se paragonata alle dittature senza scrupoli e ai grandi sistemi di potere economico che tengono in mano i destini dell’umanità) che non è giusto adeguarsi e subire passivamente tutto quello che succede. L’essere umano non è una inutile rotellina inserita in un meccanismo più grande di lui. Ognuno di noi ha il potere di incidere nel proprio piccolo. Innanzitutto con il voto. Il voto politico, ma non solo. Anche quello delle amministrazioni locali (abbiamo visto le ultime elezioni soprattutto a Verona e provincia con la forte mobilitazione di giovani e la catalizzazione di attenzione intorno a tematiche ambientali e di sostenibilità. Segnali che ci fanno credere e sperare che una politica diversa possa essere possibile, per i nostri giorni e per i giorni dei nostri figli). Il voto e l’azione concreta che deve essere motivata dalla speranza che sia possibile cambiare, migliorare qualcosa nel segno della solidarietà sociale e dell’attenzione ambientale. Perché la Terra tanto malata e ferita sia davvero sentita come la casa comune di ogni uomo e di ogni donna. Dobbiamo credere veramente che ognuno può fare qualcosa. “Può lasciare il mondo un po’ migliore di come l’ha trovato”.

Magari non la complessità e la totalità del pianeta ma almeno il piccolo angolino in cui ciascuno è chiamato a vivere. Salviamo il mondo a partire dall’azione positiva che possiamo esercitare (territorio, lavoro, tempo libero, assieme a tutti i legami e alle relazioni che in questi ambiti viviamo…) nel piccolo spazio che sta attorno a noi. E’ tutto quello che possiamo e siamo chiamati a fare.

                                                                                            Stefano Costa   


 

Silenzio in biblioteca

Libri alla finestra

C’è un’ambiente che sto frequentando, con molto piacere, in questi tempi: il salone di una biblioteca dedicato alla lettura e allo studio. Si trova al piano interrato della struttura. E’ diviso a metà da uno scaffalatura su cui sono a disposizione da una parte riviste e settimanali e, dall’altra, una serie di testi in lingue straniere. Da una parte e dall’altra dello scaffale sono disposti tavolini e sedie su cui sono seduti giovani universitari e pensionati. I pensionati arrivano ogni giorno, ad orari sostanzialmente regolari, i giovani con cadenze e ritmi saltuari, regolati dalle lezioni all’università e dall’avvicinarsi delle date degli esami. I primi a sfogliare o a leggere i quotidiani che la biblioteca mette a disposizione, i secondi alla ricerca di un luogo in cui potersi concentrare nello studio. Le case non sempre sono luoghi adatti per lo studio e la concentrazione, l’abbiamo visto con la pandemia. I ragazzi hanno di fronte il pc acceso e sono attorniati dai propri appunti ordinati. Ognuno occupa la prima posizione che trova disponibile. Qualche volta la sala è proprio affollata e si fatica a trovare un posto a sedere.

Mi sembra di respirare vagamente un’aria di scuola. Il silenzio regna più o meno sovrano anche se non mancano rumori e suoni imprevisti: un colpo di tosse, il rumore delle pagine sfogliate, una sedia che viene mossa involontariamente. Ma sono rumori che non disturbano, non provocati deliberatamente. In qualche modo anche loro contribuiscono a mantenere il clima della concentrazione collettiva. Che strana questa sensazione in tempi di tanto frastuono e chiacchiericcio.

È strano questo silenzio. Non si tratta del silenzio della montagna, della solitudine e dell’isolamento. Parliamo qui del silenzio del lavoro e della laboriosità. Il silenzio produttivo che mostra come la vita sia fatta soprattutto di lavoro, di sforzo personale. Ognuno deve vivere il tempo che gli è affidato in modo originale. E lo si fa’ in silenzio, non perdendosi nelle chiacchiere. La propria postazione in questa biblioteca è il proprio tavolo di lavoro attraverso il quale mettere a frutto i propri doni, sviluppare la propria operatività e creatività. Esiste il tavolo da lavoro dell’artigiano, del meccanico, dello studente e … anche del pensionato. Il tavolo di lavoro dice che esiste un tempo in cui ciascuno è solo con sé stesso dinanzi al proprio lavoro. Il lavoro è una realtà personale, non ripetitività o imitazione pedissequa. Ciascuno deve fare la propria parte, dare il proprio contributo alla costruzione e al miglioramento del mondo attraverso il proprio lavoro personale. 

Il mondo in cui viviamo è tutt’altro che familiare alle dimensioni del silenzio e della concentrazione. C’è bisogno di trovare o di inventare luoghi deputati proprio a questo scopo. La biblioteca per leggere, studiare, approfondire, informarsi. Come a dire che quella del silenzio è una dimensione inseparabile dalla nostra vita. Senza silenzio non c’è concentrazione, non c’è riflessione, non c’è pensiero. Senza silenzio non può esservi spazio per la creatività e neppure per prepararsi alle cose importanti della vita. Il silenzio è la faccia nascosta e più autentica di ciascuno di noi. Questa sala mi fa’ correre con la fantasia agli scriptoria dei monasteri medioevali, le sale in cui i monaci (che erano tra le poche persone capaci di leggere e di scrivere, gli istruiti del proprio tempo) trascrivevano pazientemente i testi antichi permettendo loro di essere divulgati e trasmessi ai tempi successivi, fino a noi oggi. All’ingresso di tanti monasteri si trova la frase “Custodisci il silenzio e il silenzio custodirà te” . Un primo dato su cui riflettere. Il concetto dello stare assieme non necessariamente deve essere collegato alla compagnia, al cameratismo, alla confusione, al baccano. Si può stare assieme anche facendo silenzio, tutti concentrati sul proprio lavoro, che può essere collettivo come personale. Nel silenzio laborioso degli scriptoria i monaci realizzavano i codici che tramandavano i testi sacri, liturgici e dei classici antichi. Tanti di questi codici sono delle vere e proprie opere d’arte. La scrittura stessa era concepita come un’arte. Il silenzio è collegato allo studio, al pensiero, alla concentrazione (la variazione di parole tra un antico codice e un altro talvolta può essere interpretata proprio come mancanza di concentrazione in chi era incaricato di copiare. La copiatura era soggetta al fattore umano, e quindi all’errore, a differenza della stampa). Il silenzio è lo spazio dell’originalità e dunque della creatività. L’ispirazione, l’originalità sgorgano nel silenzio. E sempre nel silenzio si delinea la visione che permette di realizzare ogni opera d’arte. Il silenzio è anche lo spazio in cui si può sviluppare il pensiero e il senso critico.

Entrare in una biblioteca significa entrare in contatto con il silenzio. E con il lavoro che gli altri fanno in silenzio. Soprattutto quando ci si colloca, al suo interno, negli ambienti più deputati alla lettura e allo studio. In questa sala stanno gomito a gomito giovani e pensionati, chi sta vivendo il periodo importantissimo della formazione e chi questa formazione l’ha da tempo alle proprie spalle. La capacità di attenzione, di comprensione dei testi, come pure la sensibilità e gli interessi tra i giovani e gli anziani è molto differente, come si può facilmente comprendere. I primi stanno lavorando per dare una “forma” (da cui la parola “formazione”) originale alla propria personalità, attraverso l’acquisizione di conoscenze e competenze. I secondi vivono la apertura e partecipazione ai destini della casa comune che è il mondo, attraverso la lettura dei giornali. Quello che leggono, gli interessi che hanno, sono il frutto della formazione che anche loro hanno avuto e a cui hanno fatto seguito decine e decine di anni di impegno professionale.

La “formazione” - il lavorio continuo di dare una “forma” originale alla propria persona – non ha mai fine finché siamo in questa vita. Quanti appartenenti alla così detta terza età vivono esperienze, propongono iniziative, si mettono al servizio per promuovere eventi. La terza età è forse la fase maggiormente propizia, contrariamente a quanto si pensava una volta, a dare continuità all’opera formativa, magari coltivando passioni e interessi che negli anni precedenti non si sono potuti portare avanti a causa degli impegni professionali e famigliari. Nessuno è mai arrivato. Da tempo si parla di “formazione permanente” della persona. E questo soprattutto perché il mondo intero vive un turbinoso e incessante cambiamento. Le condizioni in cui ci troviamo oggi erano impensabili semplicemente una decina di anni fa’. Immaginiamo come ogni persona si colloca all’interno di questa spirale in continuo movimento che è il nostro tempo. I più interessati sono i giovani, che dovranno prendere in mano i problemi e gestirli. Ma anche gli anziani partecipano a modo loro. La loro visione dei problemi è il frutto dell’esperienza e delle acquisizioni degli anni che sono venuti prima. Per questo è importante che le due categorie, giovani e anziani, interagiscano tra loro: si capiscano e si parlino. E per far questo è necessario che siano disposti ad ascoltarsi sempre di più. I giovani possono insegnare tanto agli anziani in termini di apertura al nuovo mondo che viene avanti. E gli anziani possono insegnare tanto rendendo presente il vissuto (passato) che ci ha portato fino ad oggi. Perché nulla nasce per caso o dal nulla; ogni cosa è frutto di altre cose che l’hanno preceduta.

Ritorniamo all’immagine iniziale.

Seduti agli stessi tavoli,

davanti allo schermo del proprio pc,

concentrati su manuali, formule o schemi tecnici

o intenti a sfogliare, talvolta per ore,

quotidiani e periodici, giovani e meno giovani continuano

l’opera impegnativa di “formare” la propria personalità.

Noi siamo quello che siamo (o che abbiamo ricevuto),

ma anche, e forse in misura ancora maggiore,

quello che ogni giorno desideriamo, sogniamo,

quello che diventiamo attraverso i passi concreti che facciamo.

Siamo gli incontri e le scoperte, le gioie e le realizzazioni

che ogni giorno riusciamo a fare.

E’ la “forma” (formazione) che noi diamo a noi stessi. E ciò avviene fino all’ultimo giorno della nostra esistenza quaggiù.

Quanto siamo diversi noi seduti a questi tavoli. E quanto ci è difficile comunicare, forse capirci. Mondi ci separano, non solo tra anziani e giovani, ma anche tra gli stessi anziani. Ma non ci rammarichiamo per questo. Il silenzio non è segno di incomunicabilità. Al contrario. Non è un meno, ma un più, una pienezza che trabocca: la pienezza di tutto quello che si può leggere, studiare, apprendere. Il silenzio è il primo maestro di tutti noi, vecchi o giovani che siamo.

In esso apprendiamo ad essere tutti umili ovvero ad essere disponibili all’ascolto e al continuo apprendimento, cambiando anche idea o allargando le nostre prospettive e facendo tesoro di quanto ogni persona che incontriamo può insegnarci ancora. Non c’è un’età per imparare e un’età per insegnare. Il giovane può essere per tante cose maestro per l’anziano e l’anziano per il giovane. Proviamo a chiederci quanto la nostra epoca abbia bisogno di maestri, di persone con il gusto di insegnare.

Giovani e anziani,

in biblioteca, accomunati nella possibilità entusiasmante di vivere questa avventura.

Veramente a sessant’anni, mi viene il dubbio di non sapere in quale posizione mi sto trovando: leggo il giornale ma mi sembra che sia ieri, o stamattina, il tempo in cui anch’io faticavo come loro sui libri di scuola.  

 

                                                                                                  Stefano Costa