Holodomur
L’holodomor
Ci soffermiamo su una parola che ha cominciato da qualche tempo a diffondersi in mezzo a noi. Una parola sconosciuta, avvolta in un velo di mistero, anche per quel suono lugubre che sembra trasmettere. Si sa che le parole non nascono e non si affermano a caso, ma quando arriva il loro tempo. Come un seme che sboccia dopo aver magari passato tanto tempo nascosto nel terreno. L’emersione di una parola può avvenire quando le condizioni storiche e sociali lo rendono possibile, quando il mondo si trova nelle condizioni di poterla accogliere e capire, anche per l’evolversi della situazione geopolitica. Ci sono parole che hanno la forza di caratterizzare intere epoche storiche. È successo per la parola Shoah ed è successo per il genocidio del popolo armeno. Parole che richiamavano immediatamente eventi di una drammaticità inimmaginabile, il tentato sterminio di popoli e razze causato da un preciso disegno politico. Il volto del male è talmente orribile che non riusciamo (o non vogliamo o non possiamo, non lo so) nemmeno ad immaginarlo. E sono i fatti che accadono (che sono accaduti) che danno volto e concretezza a questo male ricordandoci che non bisogna mai allentare la guardia. È sempre l’uomo (noi, uno o una parte di noi) a compiere questo male, dopo averlo concepito e progettato. Non si tratta di qualcosa che viene dal di fuori, ma è il frutto delle nostre scelte, delle nostre decisioni, delle nostre politiche, dei nostri interessi, o dei nostri disinteressi. Proviamo a pensare: certe parole non ci lasciano indifferenti. Non le possiamo pronunciare come parole qualsiasi. A me, per lo meno succede di sentire una scossa, dei brividi ogni volta che pronuncio parole come queste: Shoah e adesso Holodomur. Si tratta di parole che fanno riferimento a fatti che delle persone normali non vorrebbero nemmeno parlare. Come se il non parlarne fosse un modo per non riportare all’esistenza. Ci si spiega perché tanti protagonisti dell’olocausto non hanno mai voluto parlare di quanto avevano vissuto. Era troppo grave, troppo pesante. Addirittura sembrava non potessero nemmeno esistere le parole per raccontare una tale esperienza di male.
Holodomor! Una parola che oggi si sta diffondendo nel mondo, anche a seguito della guerra che la Russia ha scatenato contro l’Ucraina. Non è un caso che si tratti proprio di una parola ucraina. La lingua ucraina somiglia a quella russa ma ne è ben distinta come tutte le realtà che riguardano questi due popoli: la cultura, la religione, la geografia. Essere vicini di una grande superpotenza è una grande calamità. Si rischia di esserne prima o poi fagocitati in un modo o nell’altro. Nella migliore delle ipotesi si è condannati a rimanere perennemente nel suo raggio di influenza. O comunque si è condannati ad essere confusi con il vicino più grande. Il regime di Putin che sta dominando attualmente in Russia afferma che l’Ucraina è talmente vicina a sé da non essere mai esistita come entità statale autonoma. La stessa cosa diceva Metternich dell’Italia nella prima parte del XIX secolo per giustificare la sudditanza di quest’ultima all’impero asburgico. Un’aberrazione madornale. Pensiamo se avesse avuto ragione lui, cosa sarebbe oggi il nostro paese?
Gli ucraini ovviamente non ci stanno ad essere confusi con la Russia. Sanno di essere popolo, nazione, con una storia e una lingua propria. Sanno che c’è in gioco il fatto di scomparire come popolo, di essere fagocitati nelle fauci dello stato vicino. Cosa c’entra lo sterminio? Lo sterminio o genocidio è la conseguenza ultima, estrema di questo conflitto tragico. Dalla parte del più forte, la scelta precisa, cosciente, calcolata e programmata, di far scomparire un popolo in quanto popolo perché la sua semplice esistenza è (sarebbe) un intralcio fastidioso alla propria esistenza. Dall’altra dalla parte del più piccolo, la volontà di resistere a questa follia omicida e criminale affermando il proprio diritto ad esistere, ad esserci. La follia nazista voleva eliminare gli ebrei dalla faccia della terra. Agli albori della nascita della moderna Turchia c’è stato il genocidio degli armeni. E arriviamo a quello che è stato ribattezzato in lingua ucraina Holodomor. Il terzo genocidio, in un certo senso, dopo quello degli armeni e degli ebrei, anche se è ancora molto dibattuto il fatto che si debba parlare di genocidio. La parola significa letteralmente “sterminio per fame”. Una terribile carestia che si è verificata in Ucraina negli anni 1932/33. Una carestia terribile voluta deliberatamente dalle autorità sovietiche per punire e debellare il popolo ucraino. L’Ucraina è una terra pianeggiante e molto fertile. la sua produzione di grano e cereali è sempre stata molto importante. La rivoluzione bolscevica doveva portare alla nascita di un uomo nuovo e di un sistema collettivo completamente diverso da quello precedente. Tutti i piccoli proprietari terrieri (kulaki) dovevano essere debellati assieme alle loro proprietà, piccole o grandi che fossero (uno degli obiettivi della rivoluzione assieme alla collettivizzazione era proprio la così detta dekulakizzazione, l’eliminazione fisica di tutti i kulaki). Nessuno poteva più possedere nulla. Ogni cosa era proprietà dello stato, o del popolo, in definitiva di nessuno. In quegli anni terribili i contadini ucraini sono stati ridotti letteralmente alla fame. Le stime parlano di milioni di persone (4 o 5?) morte per fame. Si dice che si sia trattato di una “carestia artificiale”, per distinguerla appunto da quelle naturali. I contadini erano costretti a consegnare alle autorità i loro raccolti, una prima volta, poi una seconda e via di seguito fino a non poter più disporre di nulla. Non è tutto: a quel periodo si fa risalire la legge che in Unione Sovietica obbligherà ogni persona ad avere un visto per poter spostarsi da un luogo ad un altro. In pratica ai contadini affamati era impedito anche di potersi recare nelle città dove avrebbero potuto trovare con un po’ più di facilità qualcosa con cui nutrirsi.
“Morire di fame”. Quanto è lontana questa possibilità dalle condizioni di vita a cui siamo abituati. Noi siamo attenti ad osservare la macchiolina su un vegetale o la data di scadenza di ogni prodotto. Immaginiamo per un momento cosa possa significare non avere cibo o vederselo piano piano scomparire tutto dalla vista. Individui, famiglie, villaggi interi vennero costretti a cibarsi di bucce, di piante strane, di carogne in decomposizione, degli stessi animali che avrebbero dovuto aiutare nel lavoro dei campi. E poi? E poi, o intanto consegnarsi ad un lento processo di inedia e di infiacchimento che avrebbe portato la vita a spegnersi dopo esser stata prosciugata di ogni energia. Non si muore di fame in un giorno o in una settimana. Si muore lentamente vedendosi morire e vedendo morire tutti quelli che vivono attorno. Qualcosa da inghiottire lo si trova di tanto in tanto, ma è sempre meno. e se trovi qualcosa alla fine è anche peggio perché significa prolungare ancora di più questa agonia senza fine. Si scende sempre di più di livello. Ci si è incamminati in un processo inesorabile di annullamento. Si muore di fame lentamente. I più forti vedono morire prima i più deboli e fragili. Prima i piccoli, i bambini, poi gli anziani, poi gli adulti. Chi ha più forze resiste di più se non è già stato eliminato dalla violenza delle autorità o costretto alla deportazione in Siberia. Sembra proprio impossibile anche solo immaginare lo sterminio di un popolo per fame. Magari riusciamo ad immaginarci qualche persona che muore di stento. Ma un intero popolo? Eppure è quello che è successo. E che succede ancora in tante parti del mondo. Di denutrizione si muore ancora, anche se non si tratta di sterminio programmato da una politica criminale. Almeno fino a prova contraria.
“Morire di fame”. Dovremo pensare a questa eventualità tanto lontana dalla nostra sensibilità assuefatta a tutto e sazia di tutto. Noi e i nostri figli possiamo scegliere ogni giorno tra mille piatti, magari provenienti dalle culture più lontane. Quanto la globalizzazione ci ha resi esperti in ogni tipo di arte culinaria! Eppure al mondo c’è chi non ha nemmeno un piatto davanti a sé. Il mondo è diviso in due: i sazi e gli affamati. E parliamo di due mondi totalmente inconciliabili. Per quanto ci riguarda stanno scomparendo, o sono già scomparsi, gli ultimi vecchi che hanno sofferto veramente la fame (in guerra, nelle steppe russe o nei campi di concentramento) e comunque se sono tornati fino a noi vuol dire che da quell’esperienza sono venuti fuori. Hanno solo sperimentato la fame, ma non ne sono morti. Pensiamo al valore del pane che ogni giorno abbiamo sulla tavola. Potremmo anche non averlo.
La parola Holodomor mi fa’ poi venire in mente che il conflitto Russo Ucraino ha radici storiche ben profonde. Non c’è altro che una violenza come il genocidio in grado di rafforzare la forza dell’identità di un popolo. “Tu vuoi che io scompaia? E invece ti faccio vedere che mi so riprendere prendendo forza proprio dalle cose che tu hai maggiormente attaccato e distrutto. La mia esistenza ti da’ fastidio? Ebbene io apposta ci sono!”. Il regime di Putin ha sbagliato tutto attaccando l’Ucraina che è già stata altre volte sottomessa al potere di Mosca. E per questo ha pagato anche troppo. Non ci potrà mai essere alcun accordo, alcun patto con i russi. Non importa che loro stiano distruggendo con i missili ogni città ed infrastruttura. Distruzione, morte, annientamento dell’altro: a questo si deve giungere se non si ottengono i risultati che ci si era prefissi. Più o meno come ai tempi dell’Holodomor. Allora volevano prendere l’Ucraina per fame, adesso la vogliono prendere condannandola al freddo e al buio. Ma gli ucraini non accetteranno mai le condizioni di Mosca. E la Russia di Putin non sa più cosa fare: andare avanti significa distruzione totale, come è nel suo modo di fare (vedi Cecenia e Siria). Tornare indietro significherebbe ammettere se non la sconfitta, lo sbaglio. E questo sarebbe troppo umiliante per uno stato come la Russia. Per questo gli analisti dicono che non ci sono molte speranze per la pace. Almeno a breve termine.
Ho scritto queste righe dopo aver letto il libro Maria, cronaca di una vita dello scrittore ucraino Ulas Samshuk. Il libro non è conosciuto come i libri dei grandi scrittori e narratori russi (talvolta si tratta, guarda caso, di ucraini che scrivono in russo). Il libro, tradotto dall’ucraino, racconta la vita di una donna, Maria, e delle vicende del suo villaggio situato nella campagna ucraina. Attraverso le vicende, liete e tumultuose, della famiglia di Maria lo scrittore lascia intravvedere i grandi fatti della storia russa: l’evolversi dello zarismo fino alla sua conclusione, gli eventi che hanno seguito la rivoluzione russa fino all’epilogo tragico della morte per fame avvenuta anche per lei e per tutta la sua famiglia.
Stefano Costa